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giovedì 26 aprile 2018

«TENGO ‘NU CANE CH’È FENOMENALE, – SI CHIAMA DIK, ‘O VOGLIO BENE ASSAJE. – SI PERDERE LL’AVESSE? NUN SIA MAIE! – PER ME SAREBBE UN LUTTO NAZIONALE!».

 Toto’ fece costruire e finanziò per sette anni, cioè dal 1960 al giorno della sua morte, un vastissimo e moderno rifugio in cui, aiutato da un veterinario e da cinque assistenti, accolse e amorevolmente curò fino a 256 cani, per lo più randagi o abbandonati. Il principe Antonio de Curtis, in arte Totò, era un convinto animalista e aveva un debole soprattutto per i gatti e per i cani … “Per me cani e gatti sono vere e proprie persone”, diceva il celebre attore napoletano; e uno dei suoi maggiori crucci fu sempre quello, dopo aver allestito appunto un rifugio per i cani, di non poter fare altrettanto a favore dei gatti, animali restii ad ogni irreggimentazione. Non a caso, la prima poesia che in vita sua Totò scrisse, s’intitolava Dik ed era dedicata a un cane fedele. Nel 1950, nel periodo in cui era impegnato nella lavorazione del film Totò cerca moglie, l’attore smarrì Dik, in una stradetta dei Parioli, via Paolo Frisi, ove Totò, verso le sette del mattino, aveva accompagnato il suo barboncino nano affinché si sgranchisse le gambe. Eduardo Clemente, cugino e segretario dell’attore, racconta: “Lasciato libero dal guinzaglio, improvvisamente Dik scomparve. Invano Totò lo chiamò a gran voce, inutilmente ripercorse avanti e indietro la stradetta e le vicine traverse. Affranto, anzi avvilito, mi incaricò di far stampare e affiggere, in parecchie strade dei Parioli, dei manifesti attraverso i quali si prometteva una ricompensa di 10.000 lire, somma a quell’epoca non indifferente, a chi avesse riportato il barboncino smarrito. Ricordo che bussarono alla casa di Totò, in via Bruno Buozzi, non meno di dodici persone con altrettanti cagnolini. Totò volle dare una mancia a tutti, anche a coloro che, palesemente, si erano presentati solo con l’intento di scroccare qualcosa”. E come andò a finire? “Cinque giorni dopo, Dik ritornò spontaneamente a casa. Appariva smunto e affaticato. Totò piangeva quando lo riabbracciò. E Dik scuoteva la coda”. A casa sua Totò, negli anni del maggior successo, si avvaleva della compagnia di due cani, un lupo e un barboncino, ai quali, ironizzando sulla sua mania per la nobiltà, aveva scherzosamente conferito i titoli rispettivamente di barone e di visconte. Sul trespolo, poi, troneggiava un pappagallo che, con voce gracchiante, lo chiamava “eccellenza”. Per un certo periodo aveva posseduto anche un gatto, battezzato Maestà, ma aveva dovuto affidarlo all’autista Carlo Cafiero perché la convivenza del felino con gli altri animali, e in particolare col pappagallo, si era dimostrata impossibile. Da convinto zoofilo, a gettarsi anima e corpo in un’opera per il recupero dei cani randagi. Ma il cane che maggiormente impietosì Totò, fu il bastardino Mosé la cui foto, peraltro, venne pubblicata da molti giornali. Mosé era un randagio che, per essere finito sotto una macchina, aveva perso l’uso delle zampe posteriori: alla scena aveva assistito Totò, e Totò decise che bisognava a tutti i costi aiutarlo. “Dopo oltre un mese di medicazioni e di cure potei comunicare a Totò che Mosé era da considerarsi salvo”, racconta il dottor Mascia. E prosegue: “Totò accarezzò il cane e parve infinitamente felice. Poi ebbe uno scatto: “Dottore, io voglio che Mosé cammini. Dottore, vedete di fare qualcosa”. Pensai allora di rivolgermi all’istituto ortopedico dell’università di Roma. Due tecnici dell’università ebbero l’idea di costruire una protesi a rotelle che venne applicata, con delle cinghie, al corpo del cane. Forse fu la prima , antesignana dei carrello moderni. Quando vide Mosé camminare, Totò volle abbracciarmi. Piangeva”. Pubblicata da molti giornali, la fotografia del cane con le ruote ebbe come principale conseguenza quella di procurare a Totò nuove amarezze. “Con tanti esseri umani privi di gambe, il principe di Bisanzio pensa agli apparecchi ortopedici per i cani!”, fu scritto con sarcasmo. Facilmente Totò avrebbe potuto replicare spiegando che lui, oltre a tutto, inviava cinquantamila lire al mese al Cottolengo. Ma preferì non sbandierare i suoi atti di bontà. Come quello della istituzione di un “ospizio dei trovatelli” , che gli costò ben 45 milioni di lire e che ospitò centinaia e centinaia di bastardelli. Alla sua morte, nell’aprile del 1967, fu giocoforza che l'”Ospizio dei trovatelli” si avviasse alla fine. «In quel periodo», mi racconta il dottor Vincenzo Mascia, «nel nostro rifugio, a causa di diverse adozioni erano presenti non più di trenta cani. Pochi rispetto ai tempi di massimo affollamento, ma pur sempre trenta bocche da sfamare; cosa difficilissima senza un sostegno economico. Fu allora che Eduardo Clemente mi svelò un segreto: Totò gli aveva fatto giurare, subito dopo esser stato colpito dall’infarto, che mai e poi mai avrebbe abbandonato al loro destino i cani dell’”Ospizio dei trovatelli”. Ed effettivamente Eduardo Clemente si mise alla ricerca affannosa di persone che potessero adottare quei cani. «Lo vedevo andare, venire, caricare ora questo ora quel cane sulla sua “cinquecento”. Un giorno bussò a casa mia e mi disse: “Dottore, sono riuscito a piazzarne ventisei. Sono rimasti i quattro più malandati, Dottore, facciamo a metà? Glielo sta chiedendo il cugino di Totò”. E così due cani se li tenne lui e due me li presi io». E Mosé, il cane con le ruote? «Oh, quello morì un mese prima che morisse Totò. Credo che sia stato l’ultimo dolore che Totò abbia avuto nella sua vita. Cercai di confortarlo facendogli notare che, dopo l’incidente automobilistico, Mosé era vissuto tre anni. Aveva potuto camminare, correre, giocare…».

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