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sabato 14 aprile 2018

' A PIZZA: ORIGINE E STORIA DI UN NOME E DI UN PRODOTTO SIMBOLO DI NAPOLI NEL MONDO

 Il vocabolo pizza ha un'etimolagia che si perde nella notte dei tempi: prestando fede alla derivazione greca πίτα, che significa schiacciata o focaccia secondo altre interpretazioni avrebbe origine dal latino pinsere, o da pistus, il nome del mattarello per spianare la pasta. Altri autori fanno derivare il nome pizza dall'antico tedesco bizzo, pizzo, da cui oggi deriva il moderno bissen, che significa boccone, focaccia e pezzo di pane. Secondo altri ancora sarebbero gli arabi i veri importatori della pizza a Napoli, dal loro pane rotondo e piatto, كماج. Per tutti la pizza è quella napoletana, anche se il nome ha assunto proporzioni mondiali e le varietà sono stravaganti e il più delle volte immangiabili: i francesi la propongono a "poker": quattro colori, ma soprattutto quattro assaggi diversi su di un'unica sfoglia (copiando la pizza napoletana piegata a libretto della foto e, ancora di più la nostra quattro stagioni); i tedeschi di Berlino la preparano con wurstel e crauti, secondo la più classica tradizione tirolese; la più grande è stata realizzata in Florida nel 1987 da Lorenzo Amato: una pizza capace di 94.248 porzioni. Dalla Tanzania ci giungono notizie di una pizza napoletana condita con spaghetti scotti. Proviamo a capire come, dall’antichità si arrivi alla pizza attuale. Ricordata nel Moretum attibuito a Virgilio e raramente presente in documenti medievali, il termine pizza si diffonde nei secoli e viene utilizzato anche nei trattati dei grandi cuochi del Rinascimento. La schiacciata tradizionale , condita con aglio, strutto e sale grosso, durò piuttosto a lungo, poi, gradatamente, il grasso di maiale fu sostituito dall'olio di oliva e si aggiunsero pure formaggio ed erbe aromatiche. E' questo un momento importante nella nostra storia, perché proprio in questo periodo assistiamo alla transizione dalla pizza arcaica, vale a dire dalle antiche schiacciate, ad una pizza moderna, punto di partenza di quella attuale. Nel VII secolo arriva in Italia con i Longobardi un vocabolo del germanico d’Italia (gotico, longobardo): “bizzo-pizzo”, dal tedesco “bizzen”. Significa morso. Da morso a boccone, a pezzo di pane, fino a focaccia, è un percorso logico che i linguisti chiamano un comune processo di traslato metonimico, una sineddoche a catena. Nel latino medievale del Codex cajetanus di Gaeta viene per la prima volta chiamata “pizza” una focaccia. Accade di nuovo nel 1195 in un documento di Penne in Abruzzo. Nel latino medievale della Curia romana si legge “in panatteria, scilicet guindalis, pizis, caseo, lignis” e in un testo dell’Aquila del secolo XIV “pissas quatuor et fladonem unum” (il fladone è un tipico prodotto da forno abruzzese e molisano). Una “piczas casey, pizzas de pane” compare in un documento di Celano del 1387-88. Fioccano attestazioni da mezza Italia, fino alla "piza panis" nel cancelleresco di Pesaro del 1531. Finalmente nel 1535, nella sua Descrizione dei luoghi antichi di Napoli, il poeta e saggista Benedetto Di Falco dice che la “focaccia, in Napoletano è detta pizza”. Dunque a Napoli già esisteva!!! Nel Seicento la tradizionale schiacciata di farina di frumento impastata e condita con aglio, strutto e sale grosso continua a incontrare il favore delle popolazioni del Meridione, l'olio d'oliva prende il posto dello strutto, si aggiunge il formaggio, si ritrovano le erbe aromatiche. Agli albori del XVII secolo fa la sua apparizione una ricetta dal maestoso profumo di basilico, la pizza “alla Mastunicola” (in dialetto, del maestro Nicola). Da qui in poi il basilico assurge a ingrediente basilare e privilegiato della pizza. È solo nella seconda metà del '700 che si sparge infine in Italia l'uso di una bacca esotica, importata dalle Americhe: il pomodoro. Nell’ Otttecento la pizza è popolarissima presso il popolino, ma non la disdegnano baroni, principi e regnanti: la si offre ai ricevimenti dei Borboni, e Ferdinando IV la fa cuocere nei forni di Capodimonte, gli stessi dai quali escono le preziosissime ceramiche. Alexandre Dumas, viaggiando a Napoli, nota - in Il corricolo - che i napoletani mangiano pizza in diverse misure e con diverse guarnizioni, olio, lardo, pomodori, pesciolini, a seconda di quanto possono spendere e di ciò che c'è sul mercato. Perciò la pizza, più che un esempio di curiosità locale, è "un termometro gastronomico del mercato e della società". La prima ricetta della pizza come la conosciamo oggi è probabilmente riportata in un trattato dato alle stampe a Napoli nel 1858, che descrive il modo in cui in quegli anni si prepara la “vera pizza napoletana”. Quando la città era ancora la capitale del regno delle Due Sicilie, Francesco De Bourcard in Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti arriva perfino a citare una sorta di pizza Margherita ante litteram, con mozzarella e basilico: “Altre (pizze) sono coperte di formaggio grattugiato e condite collo strutto, e vi si pone di sopra qualche foglia di basilico. Si aggiunge delle sottili fette di mozzarella”. Il pomodoro è opzionale: “talora si fa uso”, scrive l’autore napoletano di origine svizzera. Tra l’altro, per il condimento si può usare “quel che vi viene in testa”. Ed ecco il pizzaiolo, “chi fa e vende pizze, a Napoli” precisa il dizionario Zingaretti del 1922. Ce lo presenta Matilde Serao, la prima donna fondatrice di un giornale in Italia, tra le testimonianze raccolte in Napoli d’allora scritte con Edoardo Scarfoglio: “Il pizzaiuolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia, ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano". Sempre qui, la Serao racconta del primo tentativo della pizza di espatriare. Fallito. “Un giorno, un industriale napoletano ebbe un'idea. Sapendo che la pizza è una delle adorazioni cucinarie napoletane, sapendo che la colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una pizzeria in Roma… Sulle prime la folla vi accorse; poi andò scemando. La pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana”. Siamo giunti al Ventesimo secolo. “A Federico II, napoletano in tutto, piacevano quei cibi grossolani, dei quali i napoletani son ghiotti: il baccalà, il soffritto, la caponata, la mozzarella, le pizze” scrive Raffaele De Cesare nel saggio storico La fine di un regno. Nel Dizionario Moderno edito da Hoepli nel 1905, nota guida alla selva dei neologismi di allora, Alfredo Panzini così si esprime: “Pizza: nome volgare di una vivanda napoletana popolarissima. Consiste in una specie di sfoglia o stiacciata di farina lievitata moltissimo. Cosparsa di pomidoro, formaggio fresco, alici ecc., a piacimento del cliente, mettesi al forno dove gonfia e cuoce lì per lì”. Ciò che ha portato un piatto di così basso lignaggio a divenire un simbolo italiano famoso in tutto il mondo, un pianeta in cui si mangiano 5 miliardi di pizze all’anno, è una magia. Fatta di pane, pomodoro, mozzarella e basilico. E nel 2015? Dal 15 al 21 giugno si è svolta la Settimana mondiale del Pomodoro a Expo Milano 2015, con una serie di convegni e giornate di festa, tra cui quella del 20 giugno in cui è stato battuto il record mondiale per la pizza più lunga del mondo. Ci sono volute quasi due tonnellate di impasto, altrettante di mozzarella, una e mezza di pomodoro, 150 litri di olio extravergine d'oliva, 30 kg di lievito di birra, cinque forni mobili, 40 addetti al loro spostamento, 80 pizzaioli della NIP-Nazionale Italiana Pizzaioli e 200 volontari. Nel contempo, si è riavviata la raccolta firme con l'obiettivo di raggiungerne un milione a sostegno della candidatura dell'arte dei pizzaioli napoletani come Patrimonio dell'Umanità dall'Unesco.

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