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martedì 30 giugno 2015

Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte Il primo per vederti tutto il viso Il secondo per vederti gli occhi L' ultimo per vedere la tua bocca E tutto il buio per ricordarmi queste cose Mentre ti stringo fra le braccia.


Noi viviamo molto vicini. Quindi il nostro scopo della vita è aiutare gli altri. E se non potete aiutarli, almeno non fate loro del male.


E. Hemingway


L'anima non avrebbe arcobaleno se gli occhi non avessero lacrime.


Portate l’amato non al centro del vostro cuore, ma del suo, perché lì troverà anche il vostro, e insieme troverete il cuore al centro del cosmo.


Ti ho cercato in mezzo ai volti che vedevo attorno a me. Più credevo di trovarti più eri inafferrabile. Ogni tanto mi illudevo fossi veramente tu e sentivo la tua voce anche se già non c'eri più.


La sensibilità è l'abito più elegante e prezioso di cui l'intelligenza possa vestirsi.


C'è un abito che non passa mai di moda, più lo indossi e più ti dona ..... la dolcezza.


Esistono molti modi di voler bene. Il più bello è dimostrarlo.


Per vivere abbiamo così tanto bisogno d'amore che talvolta riusciamo a vederlo anche dove non c'è.


Stai ben attento a come guardi il mondo, perché il mondo sarà esattamente come tu lo guarderai.


L'amo con passione la vita, mi spiego? Sono troppo convinta che la vita sia bella anche quando è brutta, che nascere sia il miracolo dei miracoli, vivere: il regalo dei regali. Anche se si tratta d'un regalo molto complicato, molto faticoso, a volte doloroso.


"RICUNUSCENZA" - Poesie di Totò

 Stanotte 'a dint' 'o lietto cu' 'nu strillo aggio miso arrevuoto tutt' 'a casa, mme so' mmiso a zumpà comme a n'arillo... E nun mme faccio ancora persuaso. Ma comme,dico io po',cu' tanta suonne i' mme so' ghiuto a ffa' 'o cchiù malamente; sti suonne songo suonne ca te ponno fa' rummannè stecchito comme a niente. I' stevo allerta 'ncoppa a 'na muntagna. Tutt'a 'nu tratto sento 'nu lamiento... 'O pizzo addò stev'i' era sulagno... Dicette ncapo a me:E' chisto è 'o viento! Piglio e mme mengo pe' 'nu canalone e veco sott'a albero piangente 'nu fuosso chino 'e prete a cuppolone... e sotto a tutto steva 'nu serpente. -Aiuto! Aiuto- 'O povero animale se mettette alluccà cu tutt' 'o ciato! Appena me vedette:-Menu male!... Salvatemi! I' mo moro asfessiato!- -E chi t'ha cumbinato 'e sta manera?- ll'addimannaje mentr' 'o libberavo. -E' stato 'nu signore aieressera- mme rispunnette,e ggià se repigliava.
-Si nun era pe' vvuje i' ccà murevo. Faciteve abbraccià,mio salvatore!- Mme s'arravoglia attuorno e s'astrigneva ca n'atu ppoco mme schiattava 'o core. Lassama!-lle dicette-'O vvi' ca i' moro?- E chianu chiano mme mancava 'a forza, 'o core mme sbattava...ll'uocchie 'a fore, mentre 'o serpente cchiù stringneva 'a morza! -Chisto è 'o ringraziamento ca mme faje? Chesta è 'a ricunuscenza ca tu puorte? A chi t'ha fatto bbene chesto faje? ..Ca si' cuntento quanno 'o vide muorto!- -Amico mio,serpente i' songo nato!... ...Chi nasce serpe è 'nfamo e senza core!... ...Perciò t'aggia mangià!Ma t'he scurdato ...ca ll'ommo,spisso,fa cchiù peggio ancora?!-

Poesie di Totò - Tutto è finito

Si lo so, tutto è finito non parlar, non dirmi niente già da un pezzo l'ho capito che il finale era imminente.

Si lo so, tutto è finito sei d'un altro innamorata già da un pezzo l'ho capito questa scena l'ho aspettata.

 La commedia dell'amore è finita finalmente hai spezzato questo cuore non parlar, non dirmi niente.

Poesie di Totò - Ho bisogno di vederti

Ho bisogno di vederti tutti i giorni vita mia.
Ho bisogno di sentire quella dolce melodia quella musica oppiata che m'inebria e che mi nuoce quella musica drogata che mi piace...
la tua voce.

La cultura rende un popolo facile da guidare, ma difficile da trascinare; facile da governare, ma impossibile a ridursi in schiavitù.


Per credere nel proprio cammino, non c'è bisogno di dimostrare che quello dell’altro è sbagliato


Non è mai troppo tardi per cominciare a fare le cose che davvero avresti voluto.


Il napoletano lo si capisce subito da come si comporta, da come riesce a vivere senza una lira. (Totò)


Come un fiore sboccia fuori stagione, così è l'amore! Una passione da vivere giorno dopo giorno, coltivando le emozioni vere e cogliendo, in ogni momento, quel fiore raro dal profumo inebriante che si chiama felicità.


LA VERITA' E' SEMPRE QUELLA.... La verità e' sempre quella, la cattiveria degli uomini che ti abbassa e ti costruisce un santuario di odio dietro la porta socchiusa. Ma l'amore della povera gente brilla piu' di una qualsiasi filosofia. Un povero ti da' tutto e non ti rinfaccia mai la tua vigliaccheria.


Con la fantasia...si possono creare molte cose belle....GUARDATE QUESTA FOTO


Lasciamo le BELLE donne agli uomini senza IMMAGINAZIONE.


Un cuore battente troverà sempre il tracciato dell'amore.


E quando il cuore è costretto a reprimere, solo un eccezionale motivo potrà farlo riemergere dal guscio.


Gli scrittori moderni dimenticano che solo le allusioni ai gesti dell'amore colgono la sua essenza.


Amare è così breve, e dimenticare così lungo.


Amare significa riporre la nostra felicita' nella felicita' altrui.


Amore e dubbio non si sono mai rivolti la parola.


Lei gli domandò in quei giorni se era vero, come dicevano le canzoni, che l'amore poteva tutto. È vero le rispose lui ma farai bene a non crederci.


Dimenticare è facile: basta non ricordare.


Riusciamo a dimenticare certe sofferenze soltanto quando possiamo fluttuare al di sopra dei nostri dolori.


lunedì 29 giugno 2015

Sei il sole tu che mi sveglia ogni mattina E se è un sogno non svegliarmi, dormirei altri cent’anni Basta che tu sia con me


Per tanto tempo ho avuto la sensazione che la mia vita sarebbe presto cominciata, la vera vita! Ma c’erano sempre ostacoli da superare strada facendo, qualcosa d’irrisolto, un affare che richiedeva ancora tempo, dei debiti che non erano stati ancora regolati. In seguito la vita sarebbe cominciata. Finalmente ho capito che questi ostacoli erano la vita.


Noi non riusciamo a cambiare le cose secondo il nostro desiderio, ma gradualmente il nostro desiderio cambia.


Amare una persona vuol dire donarle con sincerità il proprio cuore ed i propri pensieri, aprire a lei la propria anima e mostrarla in tutta la sua disarmante e disarmata nudità. Amare una persona vuol dire carezzare la sua anima, oltre che la sua pelle, e sentirla in tutta la sua interezza. Amare una persona è non volerne il possesso ma la sintonia, e non rapirne l’anima, ma rapirsi in lei. Amare una persona è una carezza data prima ancora che lei si accorga di desiderarla, è il sentire insieme, è il sognare insieme lo stesso sogno ma anche il sapere di esserci sempre l’uno per l’altra. Amare una persona è volare con lei negli spazi infiniti e profondi dell’amore, ma è anche un malumore o una giornata no che solo la sua presenza può lenire. Amare una persona è amarla ed amarsi in lei, è l’essere un noi che non annulla l’io ed il tu, ma li potenzia e rafforza sempre.


Come acqua sulle dita scivolano i giorni levigando aspre memorie: E’ sempre tempo quest’attimo di vita


Cerca solo di essere migliore di te stesso. Non preoccuparti solo di essere migliore dei tuoi contemporanei o dei tuoi predecessori. Cerca solo di essere migliore di te stesso.


Piangono i petali dei fiori stracolmi di rugiada Mentre i primi bagliori dell'alba giocano tra le pieghe dei miei risvegli Sento la Tua voce . Annaspo cercando di svegliarmi,cercando di uscire dalla morsa di un bel sogno Di colpo spalanco gli occhi e Tu sei la meravigliosa realtà di tutti giorni.


Tutte le cose, anche le meno interessanti, o le più brutte, hanno un lato piacevole. Bisogna solo volerlo vedere.


Il complesso dei fratelli siamesi - articolo tratto dalla "Settimana Incom"scritto da Totò nel 1960

Alle tre del pomeriggio, il caffè era ancora pieno di gente. Il cameriere li conosceva tutti uno per uno: acrobati e illusionisti, cantanti e ballerinette di fila. Qualcuno azzardava la richiesta di un bicchiere d'acqua, gli altri seguitavano a discutere di impossibili scritture. Saltare i pasti, per quella gente, era diventato il fatto più naturale. Quel pomeriggio, a un tavolo sulla piazzetta, c'era persino Peppino Villani. Si era seduto in disparte, ordinando un caffè lungo (lui, questo lusso poteva permetterselo). Perché don Peppino, nel varietà, era una specie di padreterno. Qualcuno si staccò dal gruppo e facendo finta di niente gli passò davanti con un lungo saluto: che avesse bisogno, per caso, di gente da scritturare?«Lasciate fare a me», disse un giovanotto piuttosto smilzo che aveva già avuto qualche piccolo successo nelle sale di periferia. Don Peppino lo conosceva di vista e gli disse subito, senza troppi preamboli, che anche lui in quei giorni era senza lavoro. "Giovanotto", gli propose quindi, "vogliamo farla noi una formazione? Bene. Sedete e scrivete: Peppino Villani, settecento lire. Una cantante, centocinquanta. Un'attrazione, cento. Un primo e un secondo numero, ottanta lire. E venticinque per voi. Quanto fa in tutto?" "Mille e cinqantacinque lire". "Bene, datevi da fare e domani ci vediamo". Il giorno dopo, alla stessa ora. "Don Peppì, hanno detto che la formazione è bella assai, ma costa troppo"."Questo è tutto", rispose Villani. "E noi allora caliamo. Prendete un pezzo di carta: Peppino Villani settecento lire. Cento alla cantante e settanta all'attrazione. I due numeri, cinquantacinque. E voi... voi dovete contentarvi: ventitre lire. Giovanotto ditemi il totale". "Novecentoquarantotto". "E chi volete che rifiuti un affare del genere?"."Speriamo bene, don Peppino". Ventiquattr'ore piú tardi."Don Peppì, che vi ho da dire? Sono tutti entusiasti, ma vogliono spendere di meno"."E va bene, noi caliamo ancora. Peppino Villani, settecento lire ... " "Eh, no", scattò l'altro "se qui non cala Peppino Villani, l'affare non si combina". E l'affare, infatti, andò a monte. Di Peppino Villani abbiamo detto: un asso di quei tempi. L'altro era Antonio de Curtis, un giovanottello ricco soltanto di molte speranze. Sì, insomma, ero io. Nato a Napoli in via Santa Maria Antasaecula, avevo trascorso la mia adolescenza piú nelle strade del popolare rione Sanità che sui banchi di scuola. Come abbia fatto a prendere la licenza elementare e ad iscrivermi al ginnasio, soltanto mia madre potrebbe dirlo. Scelsero il collegio Cimino, nel palazzo dei principi di Santobuono, ma io per la scuola non ero tagliato proprio. Le mie avventure di ginnasiale finirono assai presto, e ingloriosamente. Né si può dire, per la verità, che le mie esperienze militari abbiano avuto un esito migliore. Ero poco piú che un ragazzo quando mi presentai, volontario, al Distretto. Fui assegnato al 22' fanteria, di stanza a Pisa, e quindi distaccato a Pescia. Il rancio era una schifezza: brodo che sembrava acqua e pasta che sembrava colla. Allora, un-giorno, sapete cosa faccio? Gioco all'equivoco, sissignori, gioco. A Pescia, dico, chi mi conosce? Vado dal barbiere, mi faccio fare la tonsura come un sacerdote e corro in trattoria. Là ci stava un amico mio al quale avevo già raccontato tutto. "Buonasera, reverendo", mi dice,"si accomodi, si accomodi. Vedrà che qui si trova bene. Ho già pensato io a raccomandarla al padrone". Mangiai, infatti, benissimo, e mi fecero anche uno sconto per riguardo al pastore d'anime. Andai avanti così per un pezzo, poi un giorno arrivò un cappellano militare (vero) e successe un quarantotto. Come Dio volle, anche la "ferma" ebbe termine, e io potei finalmente avvicinarmi a quel teatro che, ancora ragazzo, mi aveva affascinato. La mia famiglia, intanto, si era trasferita a Roma. Fu al Salone Elena, in piazza Risorgimento, che io feci la mia prima esperienza.



Totò all'epoca della compagnia Capece







Il Salone Elena era, in realta', una modesta baracca di legno dove si recitavano soprattutto La cieca di Sorrento e La sepolta viva,L'ombra del disonore e Il capo della camorra. Ma io sapevo che da pochi giorni era stata scritturata la "Compagnia comica diretta da Umberto Capece", che faceva rivivere la maschera del Pulcinella napoletano. E fu Capece che mi consentì finalmente di passare "dall'altra parte". Non ero più lo spettatore Antonio de Curtis, ma Totò attore comico. Ebbi subito successo e, quindici giorni dopo, la prima paga: due soldi al giorno. Questo mi incoraggiò, due settimane più tardi, a chiedere un piccolo aumento. Pioveva forte, quella sera, ed ero fradicio da capo a piedi. "Signor Capece", gli dissi, "mi basterebbe una lira per settimana: almeno i soldi per tornare a casa con il tram. Perché a piedi non ce la faccio più, andata e ritorno". "Andate un po' a far del bene alla gente!", brontolò Capece. E mi indicò la porta.



don Peppe Jovinelli

Prendendo il coraggio a due mani, anche per non dover ascoltare mia madre che invariabilmente mi rimproverava di non essere diventato ufficiale di marina, decisi allora di presentarmi a don Peppe Jovinelli che era uno degli impresari più esigenti e più temuti di quel tempo. Peppe Jovinelli, a Roma, lo ricordano ancora oggi: una specie di gigante che, arrivato a Roma da un paese del napoletano, si era fermato in piazza Guglielmo Pepe ripulendola dalla giungla dei "bulli" e costruendovi, cinquant'anni fa, un teatro cui diede il suo nome. Fu Jovinelli a lanciare Raffaele Viviani ed Ettore Petrolini, e a valorizzare attori come Armando Gill, Alfredo Bambi, Pasquariello e Gustavo De Marco. Erano, appunto, le macchiette di De Marco che io conoscevo a memoria: soprattuto Il bel Ciccillo e Il Paraguay. Le ripassai per bene davanti a uno specchio e mi presentai a Jovinelli. Non era il momento più propizio perché don Peppe aveva appena finito di scaraventare fuori dal suo ufficio un attore che era arrivato tardi alle prove, tuttavia il colloquio fu abbastanza cordiale, molto più di quanto potessi sperare. "Ah, siete napoletano?", chiese Jovinelli. "A me piacciono i napoletani. E, ditemi, siete bravo?". "Mah, dicono". "Dicono, dicono, e chissà poi se è vero. Comunque vi aspetto domani per le prove". Il giorno dell'esordio, mentre il pubblico batteva ancora le mani, don Peppe si precipitò in palcoscenico contrariamente alle sue abitudini. "Giovanotto, siete stato veramente bravo", mi disse stampandomi sulla schiena una pesante manata. La settimana dopo, Jovinelli mi "riconfermava" (come si dice nel gergo del teatro), mentre il mio successo veniva annunciato da nuovi striscioni dove il mio nome era scritto con caratteri alti mezzo metro. Sapete che effetto mi facevano! Mi sembrava di sognare. Interpretando alla mia maniera le parodie vecchie e nuove, con una buffa disarticolata recitazione (più tardi mi presentarono, sui manifesti, come "l'uomo di gomma"), riuscii ad affermarmi in poco tempo. E, con l'avallo di Jovinelli, non ebbi difficoltà - allo scadere del contratto - a farmi scritturare prima all'Orfeo e quindi al Salone Margherita di Napoli, dove il successo prese proporzioni ancora maggiori.Tuttavia restava ancora un baluardo da espugnare, il più difficile, quel Teatro Sala Umberto di Roma, che era appannaggio soltanto degli attori arrivatissimi. Gli impresari non badavano a spese pur di assicurarsi i nomi più in vista. "Dovrò farne di anticamera prima di arrivarci", pensavo passando e ripassando davanti a quel teatro. Ma, per merito di un barbiere, la conquista fu assai più rapida del previsto. Il barbiere si chiamava Pasqualino ed era una specie di istituzione dell'ambiente teatrale. Chiunque si presentasse a lui qualificandosi "artista", otteneva la massima considerazione, da uno sconto specialissimo sulle tariffe a un congruo numero di applausi a teatro. Perchè Pasqualino non si contentava di servire i suoi clienti di barba e capelli, ma finiva addirittura con l'assumerne la protezione, spellandosi le mani per applaudirli e sfiatandosi per sostenerli in discussioni che si protraevano per ore ed ore. Il "salone" di Pasqualino si trovava in via Frattina: a due passi, quindi, dal Teatro Sala Umberto che Cataldi e Cavaniglia gestivano in via della Mercede. Fu, appunto, in un afoso pomeriggio di luglio che il cantante Gennarino De Pasquale mi portò da Pasqualino. "Artista?", chiese il barbiere. "Riconfermato da Jovinelli", rispose l'altro. Quel "riconfermato", detto con tono di sussiego da Gennarino, valeva più di qualsiasi altro argomento.



il barbiere Pasqualino





Se Jovinelli mi aveva rinnovato la scrittura, dovevo essere certamente un artista con la A maiuscola. L'autorevole presentazione di Gennarino ebbe su Pasqualino un effetto insperato: fu l'apriti Sesamo, che dico? , il talismano miracoloso per mezzo del quale il Teatro Sala Umberto non fu più un'aspirazione ma una realtà immediata. Pasqualino lavorò con abilissima diplomazia, strappando una mezza promessa a Cataldi e correndo subito dopo da Cavaniglia come se il contratto fosse già stato firmato. Così, ero appena stato liquidato da Jovinelli quando mi trovai da un giorno all'altro a debuttare al Teatro Sala Umberto. Fu un successo strepitoso: praticamente, il lasciapassare per tutti i grandi teatri. Da quel momento, infatti, non fui più io a cercare lavoro, ma furono gli altri a cercare me. Ormai le grandi formazioni mi spettavano di diritto, a cominciare dalla "Maresca numero due" dove fui il primo attore a fianco di Isa Bluette (la "Maresca numero uno" aveva "in ditta" Angela Ippaviz e Alftedo Orsini). Tra i successi più rilevanti di quel tempo c'è anche una commedia di Eduardo Scarpetta, '0 balcone 'e Rusinella, che fu replicata per molte settimane al difficile Teatro Nuovo di Napoli. Con me, lavorava Titina De Filippo. Il resto, appartiene al teatro di oggi, o quasi: una serie pressochè ininterrotta di riviste per molte delle quali ho potuto giovarmi della felicissima collaborazione di Michele Galdieri e - per cinque stagioni - di Anna Magnani. Poi c'è stata una guerra di mezzo e i ragazzini di allora sono diventati padri di famiglia, ma riviste come Volumineide, Che ti sei messo in testa? e Quando meno te l'aspetti si ricordano ancora oggi. La collaborazione con Galdieri riprese nel dopoguerra: ricordo alcune riviste come Bada che ti mangio e C'era una volta il mondo... dove uno sketch - quello del vagone letto - è diventato famoso. Da vent'anni e più a questa parte, la mia attività teatrale è andata avanti di pari passo con quella cinematografica, anche se qualcuno dice che Totò attore cinematografico ha finito con l'uccidere, poco a poco, Totò attore di rivista. Vogliamo dare una occhiata alle cifre? Il mio primo film è del '36. Fermo con le mani Animali pazzi e, nel 1940, San Giovanni decollato e L'allegro fantasma. Da allora, i miei film si sono susseguiti a ritmo sempre più vorticoso. Non era difficile il caso che ne girassero due contemporaneamente, la qual cosa mi costringeva a spostarmi rapidamente - in macchina e già truccato - da un teatro di posa all'altro. Nei giorni scorsi ho finito di lavorare al mio settantacinquesimo film che dovrebbe allinearsi ai migliori da me interpretati: si intitola Risate di gioia e, per diverse ragioni, costituisce una gradevole esperienza di lavoro. Tanto per cominciare, vi dirò che ha lavorato con me Anna Magnani (biondissima per l'occasione):e quando mi preparavo per girare e sentivo nella roulotte vicino alla mia - il film è fatto in gran parte di esterni- la voce di Nannarella mi sembrava di essere tornato ai tempi di Volumineide. Un'altra ragione non meno importante (oltre a un cast di attori simpatici, a cominciare da Edy Vessel che è molto bella e che ha molti atouts da giocare) è costituita da quell'intelligente regista che è Mario Monicelli con il quale ho interpretato Guardie e ladri, e cioè uno dei miei film più riusciti. E adesso, se non vi dispiace, vogliamo parlare di Totò compositore? Da buon napoletano, perchè è una cosa che abbiamo nel sangue. A Napoli anche gli analfabeti sono in grado di improvvisare. Non capisco piuttosto perché la RAI abbia trasmesso per tanto tempo le mie canzoni soltanto alle quattro dopo mezzanotte, per i camionisti e per quelli che soffrono d'insonnia. Cioè no, lo capisco benissimo. Le poesie che preferisco le ho scritte nel mio dialetto e hanno un'ispirazione fondamentalmente triste che si ripete come un leit-motiv. Molte poesie, che io stesso ho musicato, hanno trovato la strada del successo: di queste, la più nota è Malafemmena. Dovrei, ora, aggiungere qualcosa a proposito della mia vita privata, ma è un argomento che non desidero toccare. Dicono che sono troppo riservato, ma credo che un attore - quando esce da un palcoscenico o da un teatro di posa - debba appartenere soltanto a se stesso. Vedendomi in palcoscenico o sullo schermo, la gente è portata ad immaginarmi molto diverso da come sono nella realtà di tutti i giorni: un uomo semplice, credetemi, che concede ben poco a se stesso per divertire gli altri. E poco importa se, qualche volta, "gli altri" non capiscono. Ne volete un esempio? Abitavo in una bella casa di viale Parioli dove, tra gli inquilini, c'erano anche un cardinale e un ambasciatore. Ogni volta che m'incontrava, il portiere mi salutava con tanto di "eccellenza" facendomi profondissimi inchini. Poi, una sera, si fece coraggio. "So che lei", mi disse, "è un attore molto applaudito. Mi piacerebbe sentirla una volta". Gli procurai due posti per quella sera stessa. Il giorno dopo, incontrandomi, non soltanto non mi salutò, ma mi rise in faccia. Da allora, non fui più per lui una persona rispettabile, ma un saltimbanco. Ho sempre lavorato molto, e ancora oggi - nonostante i disturbi alla vista - non mi risparmio. Anche quando potevo servirmi di un Galdieri in piena forma, gli sketch più sostanziosi li elaboravo pazientemente sino al momento in cui li sentivo "su misura": come facevano, del resto, Raffaele Viviani e Ettore Petrolini. Ricordo che a Firenze, dopo dieci giorni di esauriti, fui riconfermato con un aumento di paga da 75 a 200 lire. Ero con la compagnia Maresca: una sera, il capocomico mi pregò di stare fermo quando non dovevo recitare perché il pubblico rideva e si distraeva a danno degli altri interpreti. La sera dopo, lo incontrai poco prima che si iniziasse lo spettacolo. "L'avevo pregata", mi disse, "di non monopolizzare il palcoscenico quando non è di scena. è vero che lei, ieri sera, non si muoveva, ma soltanto teoricamente: perchè anche stando fermo, era tutto un movimento. E il pubblico rideva più di prima. Quindi, faccia quello che le pare". Più di una volta, camminando per la strada, mi sono sorpreso a seguire qualche tipo stravagante, osservandone minutamente i gesti e assimilandone il modo di camminare, di muoversi, di salutare e di gesticolare. Se fossi uno studioso di psicoanalisi, dovrei definire questa mania come il "complesso dei fratelli siamesi". Infatti, non appena noto un tipo che mi colpisce per alcune caratteristiche, mi sembra che un fluido mi leghi a lui, ragion per cui divento l'altra parte dell'individuo che osservo, costituendo - con lui - un'ideale coppia di gemelli. Da ragazzo mi chiamavano proprio per questo " 'o spione". Hanno scritto di me che sono "la più autentica eredità della risata", eccetera eccetera. Non sta a me giudicare. Non ho inventato il taschino dietro la schiena come Rascel, o il ricciolo sulla fronte come Macario. Quei panni che mi cascavano addosso come se fossi stato un manichino e che mi sono serviti come "costume", altro non erano che la continuazione dell'unico abito di scena, sempre più logoro, che portavo nei primi anni di teatro: un tight troppo largo, un paio di pantaloni "a saltafossi", una vecchia bombetta e una stringa da scarpe per cravatta. "Ma come? Hai fatto barone il tuo cane e cavaliere il tuo pappagallo?", mi disse un giorno Lucy D'Albert, la più "completa" tra le soubrettes che hanno lavorato al mio fianco. "E con questo?", le risposi. "A prescindere dal fatto che Caligola fece senatore il suo cavallo, si tratta di cariche onorifiche puramente onorarie che hanno valore soltanto entro il perimetro della mia abitazione. E poi, credimi, sia l'uno che l'altro se lo meritavano proprio". Il cane e il pappagallo costituiscono, infatti, gli unici miei hobbies, se così si può dire. Non vado a pescare e non raccolgo francobolli. In quanto a scrivere versi e canzoni, quello non è un hobby, ma una necessità. E così, credo di avervi detto tutto, meno la data di nascita. Sono nato un quindici febbraio: acquariano, porta buono. Ma l'anno, che importanza può avere? Un attore non lo deve sapere mai. L'importante è sentirsi giovani. E io mi sento giovane e sempre pronto - se dovesse presentarsi una occasione favorevole - a tornare ancora una volta sul palcoscenico e a togliere dal "cassetto dei ricordi" quel piumetto che un bersagliere del Terzo mi gettò una sera dal loggione ai tempi di Eravamo sette sorelle. Quel piumetto che diede vita alla mia più felice e sfrenata improvvisazione.

Non riporre mai le tue speranze negli altri, nel tempo, nella fortuna, la tua speranza sei tu! Quello che ti si presenterà poi sarà un bonus alla tua grande fatica.


Pronunciare questa frase ‘la vita è bella’, nel tuo periodo più buio, non è cosa da niente. Dirlo forse è più semplice che crederci, ma se ci credi, forse riuscirai a comprendere il vero significato di questa vita.. perché la vita è bella non perchè tu hai, ma perchè tu dai, nonostante tutto.. La felicità la trovi nei piccoli gesti quotidiani.. nei silenzi ascoltati.. nei vuoti riempiti.. nei sorrisi regalati e nell’amore vissuto.. La vita è bella se cerchiamo di vivere la felicità e non d’inseguirla.


Le delusioni sono gratis...


Chi non ha uno scopo non prova quasi mai diletto in nessuna operazione.


Viola d'ammore - Poesie di Totò

Pe nun me scurdà 'e te aggio piantato dint'a nu vase argiento,na violetta cu 'e llacreme 'e chist'uocchie l'aggio arracquata e ll'aggio mise nomme:"Oh mia diletta!". E songhe addeventato 'o ciardiniere 'e chesta pianta...simbolo d'ammore "Oh dolce violetta del pensiero... ...he mise na radice int'a stu core!".

Cuore - Poesie di Totò

Ho preso questo cuore mesto e afflitto, e triste l'ho gettato in mezzo al mare: ma prima sopra col mio sangue ho scritto... per non amare più, per non amare...

Io amo la semplicità che si accompagna con l’umiltà. Mi piace la gente che sa ascoltare il vento sulla pelle, sentire gli odori delle cose, catturarne l’anima. Perché lì c’è verità, lì c’è dolcezza, lì c’è sensibilità, lì c’è ancora amore